02/05/2014
Por: Marco Marangoni
“Fala!, Fala!”… ho conosciuto Regina da nemmeno cinque minuti. Lei non parla l’italiano. Io non parlo il portoghese. Nonostante il lieve ostacolo comunicativo, mi esorta armata di sorriso extra-large a parlare. Di cosa? Non ho capito, forse non importa, tant’ è che parlo. E nella speranza di essere lontanamente o minimamente compreso plasmo parole a metà fra l’italiano e un ipotetico idioma sudamericano inventato al momento, addolcendo il finale di ognuna come il noto stereotipo della parlata carioca insegna.
Ho avuto la fortuna di partecipare, qualche settimana fa, alla cena che gli studenti sudamericani dell’università hanno organizzato per l’arrivo a Pollenzo di Regina Tchelly, la fondatrice del progetto Favela Organica a Rio de Janeiro. Da anni ormai Regina ha cominciato a viaggiare per diffondere la sua personalissima idea di cucina senza spreco, locale, economica e soprattutto amorosa, come piace sottolineare a lei stessa. ll progetto Favela Organica sta riscuotendo grande successo grazie all’impegno della sua energica ideatrice e dei numerosi e volenterosi collaboratori che la supportano durante tutte le iniziative dentro e fuori la favela; da Rio de Janeiro (precisamente dalla favelachiamata Babilonia, dove nacque il progetto), Favela Organica si è oggi espansa in altri stati del Brasile diventando un emblema di quella che potremmo definire una gastronomia sociale.
Regina vuole diffondere la pratica dell’orto tra gli abitanti di una delle realtà più povere del mondo e istruire le famiglie (invitate ad assistere alle sue lezioni a casa sua) su come preparare piatti sani senza sprechi, utilizzando frutta e verdura coltivata in loco e risparmiando quindi denaro. Una grande missione che è saltata agli occhi dei tanti che ora parlano di lei in tutto il mondo.
Quella sera ognuno dei ragazzi avrebbe contribuito alla cena con vivande, ovviamente proprie delle più veraci tradizioni culinarie latine. Entro nella cucina già borbottante con un timido “Olà!” che spero accontenti i presenti e mi metto ad osservare in un angolo. Tra un arrivo e l’altro i pianali della cucina cominciano a riempirsi di teglie, piatti da portata e ciotole di verdure e riso, petti di pollo e tegami colmi di colori, forme e profumi. Regina arriva senza che io me ne accorga, si intrufola tra chi affetta una cipolla e chi prepara il pollo e in un batter d’occhio la vedo già lì all’opera che monda i peperoni. Raccoglie i semini, quelli fastidiosi che si appiccicano alle dita e che sciacquiamo di solito dritti nel lavandino, mi guarda e dice “Jardim! Cresce..!”.
Ricambio con un sorriso – validissimo escamotage comunicativo ove non si padroneggi la lingua – , e capisco che esiste un rapporto tra uomo e cibo che a molti, me compreso, risulta evidentemente sconosciuto.
Qualche ora dopo mi trovo affianco a Regina e intavolo una conversazione aiutato nella traduzione dai ragazzi che forse intuiscono il mio lieve smarrimento nell’essere un milanese imbucato ad una cena di soli sudamericani. Mi parla dell’importanza di due cose in cucina e, in realtà, in tutto ciò che si fa nella vita: amore ed impegno; poi si alza, lei che è ospite della serata, e aiuta a servire un piatto di brigadeiros (praline dolci al cioccolato capaci di far resuscitare il più grigio degli umori) e mi accorgo che di amore e impegno Regina non ne è solo effettivamente inesauribile custode, ma anche generosa dispensatrice.
L’energia potenziale che ho intravisto nei suoi occhi quella sera si sarebbe scatenata ai fornelli delle Tavole Accademiche la settimana seguente, durante la quale Regina avrebbe cucinato per gli studenti e lo staff dell’università. L’esplosione è stata intensa e dilagante e per una settimana intera la cucina di Regina Tchelly, di cui avevo solo letto prima di allora, si è materializzata negli eleganti piatti bianchi della pausa pranzo che a furia di grandi chef stellati e alta cucina , diciamocelo pure, si erano un po’ montati la testa; ha solleticato le papille gustative e allargato stupore sui volti di chi addentava un pane fatto di bucce di zucca o sezionava un cannellone di foglie di verza. In visibilio il popolo vegetariano che manifesta il suo entusiasmo impilando portate su portate sul proprio vassoio e prosciugando avidamente i crediti pasto.
“Una settimana di sole verdure, legumi, formaggi e frutta!E tutto buonissimo!..Dovrebbero farlo più spesso qui!” commenta entusiasta una studentessa vegetariana intenta a masticare con gusto del fogliame verde.
Regina cucina, serve ai tavoli e chiede a chiunque le vada se è contento, se è piaciuto quello che ha mangiato. Non vuole sentirsi dire di sì, sembra piuttosto che abbia voglia di conoscere le facce sedute ai tavoli, regalare un sorriso, nient’altro. Lei e il suo sorriso si autoalimentano a vicenda, tendendo ad infinito. Contagiano la sala.
Non so se e quanto il suo messaggio sia passato dalle bocche ai cervelli di chi ha assaggiato i suoi piatti; quanti di noi, dunque, abbiano percepito e intuito che ci sono modi diversi di cucinare, di essere definiti chef, di intendere il cibo e il valore che esso possiede. Non solo per noi affamati gastronomi seduti al tavolo di un ristorante consigliatoci dall’esperto di turno, ma anche e soprattutto per chi in un ristorante non ci è mai entrato né magari ci entrerà mai.
Sicuramente, però, tutti ci siamo fatti una domanda: “ma che diavolo sto mangiando?.. Bucce?!”, e soffermandoci un istante su questa strana sensazione, forse il messaggio che Regina Tchelly e il suo progetto Favela Organica vogliono trasmettere è, in qualche modo, arrivato. Quale sarebbe? Considerando che da popolo occidentale quale siamo ci permettiamo ancora abitudini alimentari comode e viziate, urge una riflessione non tanto sul doversi mettere a cucinare bucce o semi – il che, beninteso, sarebbe straordinario- quanto piuttosto sul nostro comportamento quotidiano nei confronti del cibo.
Ogni giorno in Italia produciamo 72.000 quintali di pane fresco e ne buttiamo 13.000. Per una volta fermiamoci ai numeri, perché credo che anche senza parlare di responsabilità della grande distribuzione, degli ostacoli legislativi alla donazione dell’invenduto o del disgusto al pensiero di sprecare l’alimento più povero e allo stesso tempo più prezioso che l’uomo conosca, stavolta questi parlino da soli.
Magari non tutti quelli che hanno capito cosa sta dietro la cucina di Regina Tchelly cominceranno a conservare i gambi dei carciofi o le foglie di cavolo, ma forse ci penseranno su prima di lasciar morire melanzane e pomodori nel frigo o abbandonare una mela sul fondo della cassetta solo perché ammaccata.
Abbiamo bisogno innanzitutto di sprecare di meno, molto meno. Sarebbe già un grande traguardo.
La degna conclusione dell’esperienza “universitaria” della chef carioca è coincisa con una cena alle Tavole Accademiche con un menù interamente ispirata alla filosofia di Favela Organica. Raggiungo Regina in cucina prima che arrivino gli ospiti e tra una dritta ai cuochi e un occhiata fugace dentro un pentolone sbuffante, mi confessa che è molto emozionata e felice di cucinare per noi. Per un attimo penso a quanto deve essere diverso cucinare per le famiglie di una favela dal farlo qui dove siedono professori e amanti del “gusto”; il fatto è che credo che per Regina la differenza forse nemmeno esiste perché lei ama cucinare per gli altri, stop. Tanto meglio, anzi, che il suo messaggio e la sua filosofia arrivino qui, nel luogo che vuole essere una realtà-guida per il futuro del cibo.
E’ stato piacevole avvertire il profumo di gioia e spensieratezza che la presenza di Regina Tchelly ha diffuso nell’università e credo che un po’ tutti siano stati contagiati dal suo buonumore e dal grande valore racchiuso nella sua cucina. Parlo di chiunque abbia avuto il piacere di conoscerla, di assaggiare uno dei suoi piatti o anche solo di vederla da lontano accennare un passo di samba vestita di quel grembiule verde felicità.
Marco Marangoni
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